8.29.2013

 

Service Tax: onore al genio

E dinnanzi al genio mi fermo, chino il capo in segno di rispetto. Allargo le braccia, mi arrendo conferendogli tutto l’onore che merita. Ammettiamolo miei cari: la Service Tax è genio.
“E ora si passi al salvataggio del culo flaccido del criminale”, perché anche questa genialità subiremo noi poveri derelitti, depressi, finiti.
C’è del genio anche nelle dichiarazioni roboanti che hanno seguito la più grande sodomizzazione di massa del secolo, e queste meritano di essere citate letteralmente, per non perderne nemmeno una briciola:
Al Fano su Twitter: "Missione compiuta". L’ex tizio: "Premier rispetta i patti". Monti: "Si sono arresi alle pressioni dei pidiellini"
Sempre l’ex tizio : "Ora gli italiani hanno maggiore fiducia nel futuro".
Eh sì, non c’è che da sentirsi speranzosi per aver impedito che gente come quella puzzetta rancida di brunetta pagasse quanto dovuto allo stato, ripartendo i suoi oneri tra tutti noi. Non più solo i proprietari di manieri, ville, palazzi ma anche gli affittuari di stamberghe ammuffite e spesso pericolanti.
Missione compiuta quindi, nel pieno principio del trasformismo berlusconista, uno di quei danni che ormai sarà difficile riparare, anche ad avvenuto decesso del suo ideatore. In fondo è a lui che si deve la capacità dell’italiota di ingoiare rospi grandi come cavalli. Mi ricordo ancora il modo in cui davanti al pubblico pagato, spiegò agli italioti fiduciosi che lui aumentava l’IVA per non essere costretto ad aumentare le tasse. “L’IVA è un’imposta, non una tassa”. E il pubblico pagato si spellò le mani con gli applausi.
Il genio. Amo la genialità. È un genio che viene da lontano, in fondo, dal suo esordio politico che bene avrebbe potuto spiegare che non era saggio affidare le sorti di un paese ad un criminale, farabutto e imbroglione. Era il giorno in cui spiegò la sua idea per non far fallire la FIAT: marchiare le auto Ferrari. Che nemmeno a un cinese sarebbe mai venuto in mente. “Quale italiano non vorrebbe possedere una Panda Ferrari?” Eh già quale?
Ma non guarisco, e ancora mentre scrivo son tentata di aprire il sito delle agenzie di stampa, per vedere se nelle ultime news si sentono gli echi delle prime rivolte di piazza, delle prime barricate di strada, poi la tentazione passa perché so già che anche questa volta, come tutte, a capo chino faremo la coda alla posta, col nostro bollettino in mano per pagare ancora noi, quel che ai ricchi non si può proprio toccare … la parolaccia finale mettetela voi. Io le ho finite.


Rita Pani (APOLIDE) 

8.26.2013

 

Questa merda non è politica

Non sopporto più la stupidità che vuole farsi scienza. Meno sopporto chi vorrebbe dimostrare il suo coraggio e il suo valore con falsi attacchi al sistema, che nulla fanno se non legittimare la stupidità che dilaga.
Allora mi sento di ricordare il fondamento del declino, giacché pare che l’ovvio sia stato dimenticato. Il pdl NON è un partito politico. I suoi affiliati NON sono politici. Quell’associazione di capitalisti, malavitosi, ladri di polli, e puttane (nel senso più largo e puro del termine) nasce per assecondare l’interesse privato di questa associazione, e il suo capo/padrone. I servi che oggi si dannano davanti alle telecamere in difesa del padrone inseguono il loro tornaconto personale, piccolo o grande che sia. L’interesse economico di false imprese nate per succhiare danaro pubblico e privato, l’interesse personale di chi ha sistemato la famiglia fino alla terzo grado di parentela nella pubblica amministrazione (succhiando ancora danaro pubblico), chi si è arricchito ripulendo la merda del padrone, chi si è elevato socialmente passando dalla quarta fila di un balletto sgangherato alla poltrona da ministro.
Tutto questo, NON può essere confuso con la politica, sebbene tutto questo stia finendo di uccidere un paese già morto.
NON sopporto più che le pagine dell’informazione politica siano piene di chiacchiere da ombrellone, sulle sorti di un “gangster de noantri” e che altri propongano soluzioni “politiche” a una politica che ormai non esiste più.
“Se cade il Re” … Il problema della caduta del Re sarebbe solo quella della perdita del danaro. Non ci sarebbero più i soldi per finanziare gli spettacolini chiamati comizi, con il pubblico pagato, anziché essere pagante. Non ci sarebbero più le “convention” nei palazzi ricchi di marmi e arazzi. Non ci sarebbe più la sicurezza di poter ancora lucrare sulla vita di tutti noi, destinati a morire di fame, e perché no, di guerra. Dovesse cadere il Re, finirebbe un sistema malavitoso che fino ad oggi ha solo garantito l’arricchimento e il privilegio di un’associazione di malavitosi, che annovera tra i suoi iscritti/soci, purtroppo, sempre più gente che non ha saputo resistere e ha partecipato alla spartizione del bottino.
E questa – devo dirlo ancora – NON è politica.
L’appello che mi sovviene è sempre il solito: avere il coraggio di spezzare le catene e riappropriarsi della propria dignità, soprattutto da parte di chi divulgando le notizie sul Clan come se fosse politica, insegnano ai cittadini meno scaltri che tutto questo è politica.
Il coraggio di abbandonare il Parlamento, dichiarando a chiare lettere che non si è disposti a partecipare a questa guerra tra bande.
Il coraggio di vivere l’emergenza che ne seguirebbe, che a differenza di questa che già viviamo potrebbe avere anche una fine.
E ora che l’ho scritto, non mi sento meglio, perché so che al brusio di “eh sì eh già” non seguirà nulla, e due minuti dopo, si tornerà a credere che tutta ‘sta merda sia politica per davvero.

Rita Pani (APOLIDE)

8.24.2013

 

Salvate il culo del re

Nemmeno Bocassa osò tanto; ed è tutto dire, dato che gli trovarono della preziosa carne umana dentro il frigo.
Non ricordo nemmeno più quando si oltrepassò la soglia del ridicolo, in questa landa desolata, quando varcammo il limite del non ritorno; forse il giorno che smettemmo di dire: “Al peggio non c’è mai fine”, consci del fatto che mai asserzione fosse stata più reale.
Anche la vergogna è sentimento che ha perso senso, la proviamo certo, ma con la noncuranza di chi ormai trova normale anche vergognarsi dinnanzi al mondo che ti guarda e ti ride dietro. E comunque, anche la vergogna come qualunque altro sentimento è qualcosa che tocca solo il popolino, quello miserabile e vessato. Che ogni giorno un po’ muore dentro.
Amnistia, grazia, indulto, rilettura della legge Severino? Si può scegliere come cedere al ricatto malavitoso di un tizio, un criminale qualunque, che ormai da anni tiene in ostaggio – per le palle –un’intera nazione. Si può scegliere come annullare, dopo la democrazia, anche la dignità di un’intera popolazione che annaspa e si regge sulle spalle di una generazione di pensionati che piano, piano ci abbandona.
Qualche anno fa ebbi il coraggio di consigliare agli esimi giuristi – gli avvocati legislatori di un criminale qualunque – di porre fine all’agonia dell’Italia disponendo una legge che prevedesse l’impunità per l’imperatore. Avremmo risparmiato tempo e anche danaro, avremmo potuto occuparci delle briciole che ci riguardano, avremmo ormai imparato che legalmente lui è lui e noi non siamo un cazzo, risparmiandoci anche l’umiliazione d’esser sbeffeggiati da pseudo salvatori della patria, pseudo politici impegnati, pseudo partiti pseudo politici.
Ma loro non lo ebbero il coraggio, preferirono continuare a deteriorare la capacità di pensiero e comprendonio, logorare l’esistenza della gente per renderla schiava e succube.
Mentre tutto intorno muore, quindi noi attendiamo. Nel frattempo ovviamente non accade nulla, perché per fortuna, memori degli antichi fasti, la maggior parte di noi continua a far finta di credere che la possibilità di cambiare risieda nelle urne, nel nostro voto, nella nostra partecipazione attiva su Facebook o Twitter (si può ancora scegliere il social network, grazie addio).
Resto sempre attaccata all’idea romantica di una marea umana, che marcia silente la notte, armata di fiaccole e forconi, per nulla bellicosa. Sento solo il rumore dei passi che si avvicinano ai palazzi, immagino il batter dei denti dell’orda di barbari rinchiusa tra le mura dorate. Vorrei vederli uscire in fila, una dietro l’altro, mentre la folla si apre come le acque del Mar Rosso, e vederli sparire all’orizzonte per non vederli mai più.
Poi però leggo che il 30 agosto Renzi scenderà in campo, leggo che le nuove BR [le nuove nuove, dato che le nuove furono debellate anni orsono] hanno scritto due lettere (per fortuna non condivise su Facebook) e che il PD no, non salverà il culo a un criminale.
Mi tengo l’idea romantica e attendo … tanto io la fame – quella vera – l’ho già fatta, non mi spaventa più. Non ho bisogno di fingere di sperare che ci sia ancora un domani migliore.

Rita Pani (APOLIDE)

8.21.2013

 

L'agibilità

“Agibilità politica” non esiste. Non esiste sui dizionari, non esiste come senso, non se ne trova traccia in nessun testo giuridico o storico. È solo l’ennesimo neologismo, inventato ad arte per corrompere ancora una volta, la vacua mente dell’italiota.
È l’ennesima operazione di lavaggio del cervello di massa, che si attiene alle regole dettate da vent’anni di propaganda mediatica berlusconista, che ha devastato non solo il paese ma anche la nostra bella e antica lingua.
“Bisogna trovare il modo di garantire al tizio l’agibilità politica”, e tutto intorno si alzano le voci di esimi giuristi e politologi: “ Eh beh sì; ma no. È possibile, no non lo è.”
Perché siamo governati non solo da una manica di vigliacchi, che sanno bene quale sarebbe l’effetto nefasto di avere il coraggio della verità, ma da servi senza palle.
“Bisogna trovare il modo per evitare che il tizio paghi quel pochissimo che deve all’onorabilità dello stato. Bisogna evitare che la condanna emessa divenga esecutiva.” Ecco, se dicessero così, avrebbero almeno il mio rispetto – pur comprendendo quanta poca cosa sia.
Ma ci vorrebbe troppo coraggio per fare una cosa simile, seriamente, con quel senso di giustizia dato dalla responsabilità di giocare con la vita di una popolazione e le sorti di una nazione. E questa gente, il coraggio non lo ha; nemmeno quelli che sbraitano ovvietà nell’aula del Parlamento, parlando di “caste” e “sprechi”, dimentichi di aver tenuto il Parlamento aperto giorno e notte per lungo tempo, con l’ausilio degli uscieri, dei servizi offerti ai parlamentari, di cui hanno scordato di calcolare il costo. Una bella cifretta che avrebbe potuto risollevare le sorti di una scuola o un museo.
Ma questa è quella cosa che ci ostiniamo a chiamare politica – le parole sono importanti – e che politica non è. Una sorta di commedia nemmeno tanto buffa, dove per ognuno è stato ritagliato un ruolo in base alle proprie miserabili attitudini.
Valicati i confini dei Palazzi, via, via la tecnica si è propagata, corrompendo il linguaggio dei giornalisti, degli specialisti, dei cittadini che esultano per il simpatizzante leghista, denunciato per aver affisso volantini razzisti a Lodi. Tra i reati contestati anche quello di vilipendio delle istituzioni.
Ho letto commenti entusiastici alla notizia, e ho sorriso perché è l’emblema della nostra povertà mentale, che ci fa accontentare delle briciole.
Denunciare un leghista è sempre cosa buona e giusta, ma imputarlo di vilipendio delle Istituzioni, quando le stesse istituzioni leghiste, nelle sacre aule della Repubblica Italiana, o nelle piazze, o davanti ai microfoni di radio e televisioni, hanno chiamato una donna – ministro – nera: orango, faccetta nera, negra, e peggio su Internet, puttana negra, dovrebbe farci riflettere sulla realtà fantascientifica che stiamo nostro malgrado – o colpa nostra – vivendo.
Quello che ci salva, forse, è che grazie alla neolingua, allo stravolgimento del senso stretto della parola, oggi anche una bella cosa come Rivoluzione, non vuol dire più un cazzo, e quindi possiamo stare tranquilli e goderci quel che resta della vita.

Rita Pani (APOLIDE)

8.19.2013

 

Ieri come oggi

Mi ricordo che una ventina d’anni fa – o forse più – a Carbonia, la mia città d’origine ci fu una fortissima siccità che lasciò a lungo i rubinetti delle case asciutti. Ricordo anche che allora come oggi – perdonate la digressione -  i cittadini venivano dopo l’interesse privato, perché, allora come oggi, per esempio, l’acqua non mancò mai alle fabbriche. O non proprio, dato che oggi l’acqua c’è ma non ci sono più le fabbriche.
Non si sapeva più come risollevare le sorti dell’agricoltura, o come dare sollievo ad ampie zone cittadine che per mesi non ebbero che la poca acqua razionata portata dalle autobotti, fino a quando uno dei parroci della città ebbero l’illuminazione. Tirarono fuori una santa – forse Santa Barbara protettrice dei minatori – e la portarono in processione con la speranza di ottenere un’intercessione presso Dio e tornasse finalmente a piovere. Del tempo ne passò, poi piovve. Non si ebbero notizie dell’avvenuto miracolo; semplicemente la natura decise per noi.
Mi è tornata in mente quella disperazione, leggendo l’aumentare delle suppliche a Sant’Antonio da Padova, ai piedi dei quali i pellegrini depositano i loro curricola, con la speranza di poter trovare un impiego. Ed è segno del tempo cambiato, forse perduto. Quello bello in cui ai Santi si chiedeva un po’ di salute e una schedina vincente del Totocalcio, prima che anche il calcio diventasse una propaggine del capitalismo e della finanza creativa, attraverso il quale si possono attrarre e distrarre capitali, da mettere al sicuro acquistando uomini e pagandoli come materia prima pregiate. Ma anche qua, forse, son caduta nella digressione.
Insomma, nemmeno questo, oggi è come ieri. O meglio non lo è più da un pezzo. Da quando iniziarono a sottoporci alla “cinesizzazione” di massa, con quelle belle pubblicità – ma che strano! – con le quali ci spiegavano che attraverso le agenzie private, trovare lavoro sarebbe stato più facile e perfetto: ad ognuno il suo secondo le proprie capacità. E quella memorabile, che amo oggi come ieri, dello splendido cinquantenne che avrebbe potuto finalmente scegliere quando smettere di lavorare, per poi riciclarsi e scegliere un lavoro costruito sul suo tempo, sulla splendida vita da trascorrere con la sua famiglia, con i nipotini futuri, e perché no? con la sua giovane amante.
È sempre triste iniziare a scrivere un pezzo cominciando con “mi ricordo”. Segna il tempo vano trascorso da quando ancora avevamo fiducia in noi, a quello in cui la vita ci ha segnato tanto, da non lasciare più alcuna illusione. E non è malinconia, ma proprio tristezza; quella che mi assale guardando al mondo che abbiamo contribuito a distruggere, regredito al punto che ho sentito gente felice per uno spread mai così basso o esimi giuristi che discutono per “l’agibilità politica” di un delinquente incallito. Una tristezza amara quella di dover ammettere che almeno il tempo in cui si portava a spasso una Santa, per far la danza della pioggia, nessuno avrebbe trovato strano dare una mano a centinaia di naufraghi approdati su una spiaggia.
Ed è ancor più strano che ieri come oggi, al governo c’era la DC

Rita Pani (APOLIDE sconfitta)

8.12.2013

 

E quei calzini turchesi

È chiaro che la stravaganza dei calzini turchesi del giudice Mesiano, non ci ha insegnato nulla. Se avessimo imparato quella lezione, ora non staremmo a interrogarci sulla preoccupante somiglianza tra il giudice Esposito e la parodia del cornista sportivo napoletano, Felice Caccamo. Ma ci hanno tolto la scuola, rendendo tutto più facile.
E nemmeno, quindi, ci ricordiamo chi fabbrica le nuvole gonfie di merda, che ogni tanto piove su tutti noi. È quel servo che ebbe a chiedere la grazia al presidente della Repubblica, dopo essere stato condannato per aver diffamato un altro magistrato.
Vorrei scrivere, ma ogni volta mi sembra di arzigogolare. O meglio, a volte mi deprime; troppo faticoso cercare modi nuovi per dire sempre le solite, miserabili e vecchie cose. Più triste poi, sentirsi dire che no! Non bisogna mollare, che bisogna Resistere e Lottare, che non dobbiamo smettere mai di sperare, come se fossimo inesauribili ed eterni. E se davvero ne siete capaci, allora sono felice per voi.
Io non sono capace, e in vero nemmeno mi capacito. Non sono capace nemmeno di estraniarmi del tutto, e allora leggo, m’informo, ma soprattutto osservo la vita che mi passa accanto, che la mia già la conosco e la sopravvivo a malapena. Leggo quasi divertita di Felice Caccamo, e della sentenza di Cassazione che deve essere annullata, leggo di un malavitoso che ricatta un’intera nazione, e sorrido pensando che persino in una tribù ancora ignota dell’Amazzonia, tutto questo non sarebbe mai esistito. Scopro che se il problema di Palermo è il traffico, quelli dell’Italia da affrontare subito e di petto – prima di soccombere – sono la giustizia e l’Imu. La minaccia poi terrorizza: “ Forza Italia ha già pronti i manifesti elettorali …”
Vorrei morire. Ma per fortuna leggo che c’è la ripresa; 500 giovani lavoreranno per censire i beni culturali italiani, per ben sei mesi. Vorrei morire di nuovo, perché ho una figlia senza futuro alla quale forse non ho insegnato abbastanza. Vorrei morire, perché l’altra sera ho visto una madre usare il suo bambino molto piccolo per estrarre gli abiti usati dal cassonetto dedicato che sta a poca distanza da casa mia, e ho i visto i carabinieri fermarsi davanti a lei, alle tre del mattino, che alla fine del pianto e del lamento le hanno sequestrato l’attrezzo di ferro col quale aveva messo in sicurezza l’imboccatura del contenitore giallo, ma le hanno lasciato le buste che il bimbo era riuscito ad afferrare. E non erano nemmeno zingari, come farebbe comodo pensare.
C’è la ripresa. Ma al mio amico non gliel’hanno detto, infatti mentre si affrettava a far i bagagli per tornare a casa a riposare al mare, ha ricevuto una telefonata: “ … ci scusiamo con te, ma ritieniti libero di trovare un altro lavoro. Il primo settembre non riapriremo.”
Perdo il filo, lo so. Arzigogolo. È che sapere che pure Vanna Marchi dovrà ricorrere all’Europa per essere stata condannata da Felice Caccamo, è qualcosa che lascia sgomenti. Una donna tanto per bene, una benefattrice … Non ci si crede.
Il resto da dire ci sarebbe, ma non serve; tanto ha ripreso a parlare anche bossi quindi che ve lo dico a fare?

Rita Pani (APOLIDE)

8.04.2013

 

Eravamo tutti qualcosa

Si scendeva in piazza circondati dalla polizia, stando sempre vigili affinché dai lati del corteo non arrivasse la feccia fascista, anche se eravamo così tanti da sapere che quattro ratti non avrebbero certo trovato il coraggio di affrontarci. Allora si stava attenti alla polizia, perché loro anche erano ratti, ma ben armati.
Gli slogan di una volta erano belli, piccoli brani di letteratura, aspri e divertenti, facili da cantare e da saltellare. Ad un certo punto, forse anche per la nuova comunicazione virtuale che si affacciava e iniziava a coinvolgere molti di noi, gli slogan son diventati più telegrafici, ed inventammo il “Siamo tutti …” per sigillare la comunanza e la solidarietà con la categoria in disagio, che aveva bisogno di combattere il momento.
Così, noi Compagni indomiti, siamo stati tutti Falcone e Borsellino, tutti gay, tutti negri, tutti clandestini, tutti Mirafiori, tutti Bocassini, tutti disoccupati,  tutti devastati dal ventennio barbarico berlusconiano, morto ogni volta e ogni volta resuscitato.
Avevamo ancora suole da consumare, eravamo forse ancora illusi che certe cose appartenessero solo a noi, come la voglia di combattere, di salvare il mondo, e soprattutto essere unici depositari della memoria storica di un Paese che aveva combattuto e grazie alla sua lotta ci aveva consegnato molti diritti e qualche dovere: uno fra tutti essere custodi della Democrazia, della Libertà e della Costituzione.
Ma non avevamo capito un cazzo.
Non avevamo capito allora, che non avremmo mai dovuto cedere ai nemici, soprattutto a quelli che erano insospettabili, quelli che fecero di Berlinguer il loro padre morto, per poi sputare regolarmente sulla sua tomba. Quelli che i padri riuscirono a rinnegarli guardando dritto nell’obiettivo di una telecamera, così che il disprezzo fosse più palese. Nel frattempo la feccia fascista si riorganizzava, occupando anche le nostre piazze, le nostre strade, scortati da una Polizia complice, troppo spesso appartenente e serva della stessa feccia.
Non avevamo capito quanto avrebbe potuto essere importante, continuare ad essere chiunque avesse bisogno di noi.
Così ci siamo ritirati, un po’ per stanchezza, un po’ per l’illusione di poter delegare ad altri la fatica di combattere una guerra che noi avevamo perso: quella di salvaguardare, almeno, la civiltà.
“Se un presidente del consiglio riesce a chiamare coglioni molti dei cittadini italiani, allora votiamo per uno che sa dirgli vaffanculo” devono aver pensato in tanti.
Io per esempio ho pensato che non avrei votato (e ancora lo penso) se non ci fosse stata una legge elettorale democratica che riaffidasse a noi il diritto di voto, scippato dal connubio mafia/lega. Altri si sono arresi per stanchezza, per fame e per sopravvivenza.
Quindi oggi noi non siamo più “tutti”. Perché anche questo ci è stato rubato dalla macchina da guerra di propaganda fascista, che proprio oggi alle 18, porterà in piazza i vecchietti degli ospizi, i fan sfegatati, le comparse prezzolate delle tv di un delinquente certificato a gridar: “Siamo tutti pregiudicati.”
E non è una novità! La feccia è già scesa in piazza nemmeno tanto tempo fa a gridar: “Siamo tutte puttane”. La feccia è già stata davanti a un tribunale a gridar: “Siamo tutte puttane.”
A breve la feccia scenderà ancora in piazza a urlarci contro: “Siamo tutti pedofili! Siamo tutti corruttori! Siamo tutti mafiosi.”
E noi non siamo più. Noi non siamo più capaci. Noi siamo persi in questo paese surreale, in cui la giustizia viene massacrata quando condanna un evasore fiscale, e non viene incarcerata quando ammazza un ragazzo per strada, o ne uccide uno innocente in carcere, o ci priva del diritto di raccontare i nostri pensieri, di scrivere la storia.
Se un giorno dovessero condannarmi, per aver diffamato un fascista, per aver dato “dell’ossimoro” ad un partito fascista, io non accetterò la condanna, ma ho idea che non potrò comunque tenere lo stato per le palle, non potrò dettare i termini di un ricatto, non potrò pagare nessuno per essere tutti me. Io non sono mai stata e non sarò mai mafiosa. Resto comunista.

Rita Pani (APOLIDE)

8.02.2013

 

Per pochi milioni di euro

Un delinquente è un delinquente, è un delinquente.
Non è facile, anche perché non smette di perseguitarmi l’eco dell’ultima risata. Non è facile soprattutto perché non sono mai stata capace di scrivere di fantascienza. Non è facile perché temo di superare anche io il limite della decenza, lasciandomi trasportare nel vortice del surreale che ormai pare aver inghiottito quasi tutti noi.
Decenza e dignità son cose antiche, ormai sconosciute l’etica e la morale che in una giornata come quella di ieri avrebbero dovuto imporre a tanta gente di tacere; primi fra tutti i giornalisti, i primi ad essere stati ingoiati dal vortice del surreale, e ormai incapaci persino di rendersi conto delle bestialità che riescono a dire e scrivere e raccontare.
Facile partire dalla ragazzetta del calippo, che dichiara sommessamente “sono preoccupata per il mio ragazzo”. Fa ridere. È impossibile non farlo, avendo presente l’età del Matusalemme imbalsamato col quale per amore o per danaro è costretta a passare le notti.
Facile sogghignare dinnanzi “all’esercito di silvio” che non comprendendo la sentenza festeggia vittorioso.
Un po’ più complicato è parlare di moltissimi giornalisti, collegati in diretta tv con l’evento del secolo, che restano interdetti davanti alle parole del Giudice, perché proprio come i soldatini non sono in grado di comprendere, ed attendono che il magico auricolare gli traduca “pene accessorie” con “quella cosa dell’interdizione”.
Non è facile riportare il tutto alla realtà, rileggendo o riascoltando le dichiarazioni più o meno istituzionali, che hanno fatto da corollario alla condanna di un evasore fiscale, che mentre evadeva il fisco per milioni di euro ed accumulava il danaro in fondi neri in paradisi fiscali, imponeva alla nazione tutta il rigore della povertà, devastava il sistema pensionistico, sottraeva la speranza delle persone per bene che avrebbero solo voluto lavorare. Scriverlo così sembra ridondante; sembrano parole ideologizzate, ma non è altro che la realtà.
Non è facile e mi perdo.
Come si può accettare che una deputata del parlamento italiano, commentando la sentenza di condanna di un evasore fiscale dica: “"Fa stupore pensare, infatti, che una persona possa evadere il fisco per pochi milioni di euro quando ne versa alcuni miliardi" [Uno che ruba e poi fa l’elemosina, non è meno ladro. Uno che uccide e poi salva una vita non è meno assassino, uno che stupra e poi aiuta una vecchietta ad attraversare la strada …]
Come si può accettare che il presidente della Repubblica Italiana dica “Ritengo ed auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l'esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all'amministrazione della giustizia”?
Non è facile scrivere di fantascienza, io non sono capace. Pare ovvio solo a me che questa siano dichiarazioni aliene? C’è qualcun altro che come me pensa che la gente non possa davvero credere che la cosa da riformare sia la giustizia, tanto più che a riformarla dovrebbero essere una manica di delinquenti, corruttori, ladri, debosciati, mafiosi e chi più ne ha più ne metta?
Gira un bel filmato di un Carabiniere che annoiato, in attesa dei giudici, inizia un piccolo e divertente balletto, fermo sul posto. Son pronta a scommettere che il poveretto andrà incontro a qualche azione disciplinare, per aver violato la sacralità di un’aula di giustizia. Perché l’Italia è attenta alle sue istituzioni, le protegge, protegge la Costituzione, e lo stesso Stato che non può essere offeso da aggettivi volgari.
Poi però trasmette a reti unificate il videomessaggio di un evasore fiscale, appena condannato, che promette e minaccia: “resterà in campo”.
Plancia. Teletrasporto …



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