5.19.2011

 

La gente

È della gente che voglio parlare; la gente, quella che io detesto a volte neanche cordialmente, e che tengo a distinguere e separare dalle persone, quelle con cui mi piace sorridere e chiacchierare. Mischiarmi alle persone è diverso che mischiarmi alla gente, alla folla che partecipa alle cose stando bene attenta a restare in disparte, chiusa nella propria bolla di individualismo prepotente. La gente partecipa alle cose riempiendo luoghi e restando comunque distante.

Credo che non sia un caso quella frase divenuta slogan “la gente è con me!” che spesso sentiamo uscire dalla boccaccia del tizio appeso (male purtroppo) sul predellino; è vero, la gente è con lui, mentre le persone per fortuna stanno alla larga. E di gente ne ho visto tanta in questi ultimi giorni, così tanta che sento quasi il bisogno di disintossicarmi, di lasciarla andare via dalla mia vita, di accantonarla ma non scordarla, per le volte future che volente o nolente dovrò rincontrarla.

La gente è quella che ti guarda senza vederti, che riconosce di te solo l’abito che indossi, sia esso i guanti della donna che pulisce i bagni – usati dalla gente – sia il cappellino buffo del ragazzo che prepara il caffè, o la cravatta regimental del signore che sotto il sole, per ore, fa sì che la folla scorra così come scritto nel regolamento – la gente da ingressare (sic!) – in modo ordinato. Il cartellino che sei costretto ad esporre appeso al collo, come il collare di un cane, che dice a tutti che tu sei là per lavorare.

La gente scruta infastidita la signora con i guanti neri e pesanti che ripulisce il disastro di un bagno per signore, che sembra l’orinatoio di una bettola di ubriaconi di periferia, e dondolando sbuffa: “Ma ancora non ha finito?” e quando finalmente la donna stanca esce dai bagni, la gente entra e piscia metà sul bordo della tazza e metà per terra … “che non è bene poggiarsi – che schifo!” oppure la gente è più furba, e con fare da faina s’infila dentro il bagno per gli handicappati “che mica son scema, né? Tanto qua non ci viene nessuno.” Poi però arriva la persona con handicap e appena infilata la carrozzina dentro il bagno si ricaccia fuori, alla ricerca della signora di prima, quella con i guanti. Perché la gente forse non sa, che una persona in difficoltà non può stare appesa a pisciare a caso metà sulla tazza e metà per terra. Lei, poveretta, deve restarci seduta sulla schifezza della gente, per forza.

La gente va in gruppo a bere il caffè, dal ragazzino col cappello buffo, che dalle 9 del mattino ne ha preparato a migliaia di caffè, nei bicchierini di plastica perché lavare le tazzine sarebbe impossibile. E ne chiede otto, tutti insieme, allungando lo scontrino e dicendo forte: “due lunghi uno macchiato freddo tre macchiati caldi uno ristretto e un marocchinooooooo”. O la signora che l’hot dog lo vuole vero, con i crauti, con la mezza baguette bucata in centro e il wurstel infilato, a mo’ di pene. “Perché questo non è un hot dog vero, e siete ladri, e ci fate mangiare in piedi come i cavalli. Ladri dell’Autogrill”. E dopo l’hot dog ci vuole un caffè per tutti e sono ancora lunghi, stretti, corti, marocchini e al vetro, così che quando il ragazzo posa sul banco quattro semplici caffè, anziché un “grazie” riceve un insulto: “Incapace! Lo volevo macchiato!”

Poi ci sono quelli del “lei non sa chi sono io”, tutti ospiti importanti che sono stati chiamati per intrattenere la gente che non vede l’ora di spolparli, di toccarli e fotografarli, che sfilano davanti all’uomo con la cravatta, in piedi da dieci ore sotto il sole, al punto che gli occhiali hanno lasciato sul suo viso il segno bianco, come fosse il costume al mare. È la gente che dovrebbe appartenere al mondo della cultura, quella stessa che insegna cosa ne sia stato della nostra tradizione della musica o della cultura. Quella che si è guadagnata la “famosità” passando per la televisione del tizio che la gente l’ha con lui, o che siccome ha portato qualche borsa per altra gente famigerata, crede di avere un po’ più diritti degli altri, e che le regole siano state fatte a posta per essere trasgredite, che torna nel mondo reale quando l’uomo ormai abbronzato e stanco gli ricorda che ha a che fare con una persona. Una persona che lavora.

Come l’altra col cartellino che sembra il collare di un cane, che conservandosi persona tra la gente, si ostinava a dire: “Buongiorno!” a chi le si fermava davanti, e per risposta riceveva il silenzio o un furtivo sguardo alle tette.

La cosa strana è che tutta questa gente vagava tra i libri, gli oggetti che nel mio immaginario conservano una sorta di sacralità. I libri che hanno contribuito – insieme all’educazione impartitami – a farmi persona e forse anche a rendermi orgogliosa d’aver sempre e soltanto chiesto un banale caffè, d’aver sempre ringraziato per averlo ottenuto, e di aver pazientato per riuscire a pisciare, almeno, dentro alla tazza.

Rita Pani (BREVE)

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