2.20.2005

 

CRONACA E IMPRESSIONI DALLA MANIFESTAZIONE PER GIULIANA

di Gianluca Freda
Sabato, 19 febbraio 2005 Parto da Arezzo alle 10.15 con un gruppo organizzato. Appena arrivato il treno, un manipolo di sbirri fa scendere due o tre pacifisti in viaggio per Roma senza biglietto. Se ci fosse stato il tempo, avremmo potuto affiliarli al biglietto collettivo del nostro gruppo ed evitare loro la sosta imprevista, ma siamo arrivati troppo tardi. Sul treno, si inizia a parlare di quello che succede nelle questure ai manifestanti fermati dalla polizia. Ognuno ha da narrare storie di amici o conoscenti sottoposti a umiliazioni, torture fisiche e psicologiche. Anch’io avrei qualcosa da raccontare, dopo Genova, ma la giornata non mi sembra idonea. Chissà perché tanta gente è ancora convinta che le torture e le sevizie poliziesche nel nostro paese rappresentino un’eccezione. Una ragazza, parlando di quello che hanno fatto a un suo amico, dice: “Sentendolo parlare mi rendevo conto che siamo completamente alla loro mercè, che possono fare di noi quel che vogliono”. Arrivo alla stazione Termini con un brutto sapore in bocca. Il colpo d’occhio è agghiacciante. Tutta la stazione è tappezzata di striscioni e cartelloni, a predominanza blu di prussia, inneggianti a forzitalia. Sembra d’essere alla stazione di Berlino in piena era del Reich. I cartelloni proclamano: “Abbiamo rispettato tutti gli impegni”. Bravi, allora è tempo di cavarvi dal cazzo. Nascosta in un angolo, c'è una gigantografia di Pecoraro Scanio formato parete. Normalmente mi farebbe urlare di spavento, ma in questo contesto rappresenta un piacevole intervallo alla monotonia prussiana dei tricolori. In Piazza della Repubblica pioviccica, ma allo stesso tempo c’è il sole. Credo che i romani chiamino “gnagnera” questa pioggerellina inspiegabile, che si ostina a esistere sfidando l’assenza di nubi e ogni probabilità meteorologica. Le bancarelle che vendono magliette vengono ricoperte, in fretta e furia e alla meno peggio, da pagine del “Manifesto” su cui campeggia la foto di Giuliana in cornice arancione. Giuliana sorride e protegge le T-shirt pacifiste dalle lacrime del cielo.
Nel corteo, un’associazione di donne per la pace mi invita ad uscire dal suo lebensraum riservato al sesso femminile, così mi acquatto dietro lo striscione rosso dei disobbedienti. C’è Casarini che confabula con gente che arriva alla spicciolata. Ogni tanto una ragazza dal corteo gli strilla “Luca!” e corre ad abbracciarlo e baciarlo rumorosamente. A un certo punto due elicotteri della polizia iniziano a roteare come avvoltoi proprio sulla nostra verticale. Chiunque possieda un dito medio lo innalza, svettante, verso il cielo. Anche Casarini lo fa, e io pure, ma resta la sensazione di vivere in una società ridotta a un immenso carcere, e che questa sia la nostra ora d’aria trascorsa sotto la sorveglianza di secondini armati. “Possono fare di noi quello che vogliono”. Manca la rabbia, manca il dialogo, mancano la strategia e la determinazione per perseguire obiettivi comuni o addirittura la stessa capacità di capire che quegli obiettivi sono comuni, e fino a che punto, e per quante persone al mondo. Ci avviamo verso il palco dei Fori Imperiali come una mandria di pecore colorate condotte, per un giorno, fuori dal loro recinto da un pastore benevolo. I ragazzi improvvisano danze, la musica di Rino Gaetano, degli Ska-P, dei Ratti della Sabina piove sul corteo, schizzando fuori da giganteschi altoparlanti che sovrastano minuscoli e ammaccati furgoncini. Inizia a far freddo. Ma perché dobbiamo sempre ballare? Perché dobbiamo sempre ridere? Perché dobbiamo permettere al gas esilarante di pattugliare le strade anche in momenti come questo? Alla fine, il discorso del direttore del Manifesto, Gabriele Polo, viene sottolineato dall’applauso più lungo e scrosciante della manifestazione. Il momento è solenne, la rabbia è palpabile, ma subito dopo arrivano Ricky Gianco e la cacofonia delle band irachene e la gente riprende a sculettare. Intendiamoci, “Vento dell’Est” è una delle canzoni che più amo in assoluto. Ma come possiamo pretendere di ottenere dalle persone rabbia o felicità, indignazione o allegria, dolore o gioia, se continuiamo a frullare insieme tutti i sentimenti umani conosciuti in un beverone indigesto in cui nessuno di essi è più identificabile con il significato che gli è proprio? Me ne torno verso la stazione Termini, semicongelato, deluso, e non so se essere felice per il ritorno del movimento pacifista, preoccupato per Giuliana, indignato per la mancanza di riflessione critica che impedisce a questa miriade di gocce di trasformarsi in oceano, da individui in collettività consapevole e attiva. So per certo che voglio vivere tutti questi sentimenti centellinandoli, assaporandoli lentamente, non più di uno alla volta.
Gianluca Freda

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